Venerdì 15 Luglio, sono le 8:05 di mattina. Cos’ha di diverso questo inizio giornata da tanti altri? Bè, sicuramente non il fatto che sia in ritardo per andare a lavoro. Avviso i colleghi, mi preparo velocemente e tempo 15 minuti sto chiudendo il cancello del garage, salto in sella alla mia fedele 250 e mi metto in strada.

Percorro la strada principale del mio paese, come tutti i giorni per andare a lavoro e in generale per i miei spostamenti. Sono in ritardo ma non c’è fretta, la gente di mattina dorme ed è meglio stare attenti.
In lontananza, scorgo un paio di macchine ferme all’incrocio più “cieco” di questo tratto; sono preceduto da una macchina, che probabilmente mi “nasconde” alla vista degli altri mezzi e istintivamente rallento.
Arrivo sull’incrocio, che devo percorrere con piena precedenza (tratto rettilineo); tutti fermi;
“Bene, proseguo tranquillo”.
Come non detto.
Appena al centro dell’incrocio, una delle due auto ferme parte e mi centra in pieno.
Non ho molto tempo per reagire, quando formulo il pensiero del primo impreco mi trovo già in volo, i primi NOcazzPORCAPUTTchecazzfaPORCAMISERIA sono fortunatamente seguiti dall’istinto di portare le braccia in alto come per raccogliermi.
Sbatto violentemente contro schiena/spalla destra contro la rete di un giardino, le gambe a terra.
Steso per terra, mi volto subito verso la il punto dello scontro… La macchina che mi ha colpito sembra ripartire per scappare… Caccio un urlo sperando si fermi e giro il busto per vedere più dettagli possibile, nel caso fugga veramente… Per fortuna, ha semplicemente deciso di liberare l’incrocio e viene a sincerarsi delle mie condizioni…
Mi fanno male la spalla, la schiena. Si ferma una signora “Avete bisogno? Avete già chiamato l’ambulanza?” – “La stiamo chiamando, signora”.
Non mi sento le gambe. Dalle cosce in giù non sento niente.
“Il ragazzo è caduto in moto, ha male alle gambe”
L’ambulanza impiegherà 10/15 minuti ad arrivare… Sono sotto il sole cocente, tolgo il casco e il giubbotto, che metto sotto schiena e gomiti come appoggio.
Penso “chissà stavolta quando tornerò ad usarle, le gambe…”.
Non le sento…
Dopo un po’, inizio ad avvertire il dolore dal piede sinistro… Provo a muovere le gambe per mettermi su un lato, e riesco a contrarre i muscoli delle cosce. Piego leggermente le ginocchia e non mi fanno troppo male.
Arriva l’ambulanza.
“Stenditi, ti carichiamo”
Il freddo contatto con la barella rigida, e l’apposizione del collare (accompagnate da un lieve trauma cranico) mi trasportano in una contorta condizione sensoriale dove non capisco più bene cosa succederà nei momenti successivi.
Mi portano in ambulanza, sento che mi sfilano i pantaloni lacerati, mi tolgono le scarpe.
“Forse dovremo tagliarti la maglia” - “Tanto ormai… Danno più danno meno…”
“Uuuuh, siamo nervosi… Suvvia, che per fortuna eri vestito bene… Ma che belle vene gonfie che hai!”
Vedo una flebo spuntare sopra i miei occhi. Non sopporto le punture degli aghi, ma stavolta neanche l’ho sentita.
L’ambulanza si muove. Mi appiglio ai supporti laterali della barella, ma nonostante sia conscio di dove mi trovi e dove stia andando (e che strada stiamo percorrendo), non capisco granchè.
Arriviamo in ospedale. Scendiamo dall’ambulanza, “claclac” delle gambe della barella che si aprono, megasbuffo passando sotto la scritta “Pronto Soccorso”, la mia simpatica soccorritrice ride…
Il rapporto che forse stava creandosi tra la mia schiena e la fredda barella viene già interrotto, i soccorritori devono riprendersela e sento di nuovo quel “clac”, la barella che si apre e mi viene sfilata dalla schiena, un rumore e una sensazione che mi sembrano quasi familiari, nonostante li sente per la seconda volta.
Entriamo in ambulatorio…
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